venerdì 18 gennaio 2013

This Must Be the Place

Regia: Paolo Sorrentino
Attori: Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten
Genere: Drammatico

Cheyenne, cinquantenne, ex popstar di musica gothic, che non abbandona il suo passato apparente fatto di makeup glam e abbigliamento dark, ma quasi non ricorda come si suona la chitarra, conduce una vita da pensionato agiato in una villa lussuosa a Dublino, con una moglie che lo ama in modo sconfinato. Il suo stato d’animo oscilla tra una lieve depressione e una infinita noia. La morte del padre, con il quale aveva interrotto i rapporti da tempo, lo costringe a tornare a New York. Scopre che egli aveva un’ossessione: vendicarsi del suo carnefice per un’umiliazione subita in un campo di concentramento. Inizierà così un viaggio attraverso gli Stati Uniti alla ricerca di quest’uomo. Questo si rivelerà essere un viaggio nel quale egli ritroverà un luogo, proprio dentro di sé, anche se il personaggio lo negherà (“..non sto cercando me stesso. Sono in New Massico, non in India”).






This must be the place, canzone dei Talking Heads, dà il titolo al film, diretto da Paolo Sorrentino, e riecheggia per tutta la pellicola. Non a caso, proprio David Byrne scrive le musiche per il film durante il quale si esibisce anche cantando l’omonimo brano. Proprio il testo offre al pubblico una chiave di lettura. Il brano inizia così: Home is where I want to be. Cheyenne deve ritrovare la casa, intesa non come luogo fisico, ma come quel luogo dove stare in pace con se stessi. Tuttavia risuona spesso un altro pezzo, quello del compositore Arvo Pärt, Spiegel im spiegel. È una melodia candida e armoniosa dal forte impatto emotivo che avvolge la fragilità e la sensibilità del personaggio.


La figura di Cheyenne riporta alla mente personaggi già noti: Eduard mani di forbici, ma anche Robert Smith, leader dei Cure, se non addirittura un Ozzy Osbourne nelle vesti di se stesso nella fiction televisiva creata su misura, The Osbournes. A tutto questo si aggiunge un elemento caratterizzante; è una sorta di “coperta di Linus”, rappresentata dapprima da un carrellino per la spesa, poi da un trolley nero. Inizialmente può suscitare ilarità, ma poi fa riflettere. 
Nonostante la fama e il successo, il personaggio è profondamente timido, dalla flebile voce, che si alterna a stridenti grida (ma anche a risatine esilaranti). 
È un bambino nel corpo di un adulto, ancora non consapevole di sé e dell’altro da sé. Di adulto, ha solo il senso di colpa (alcuni giovani si sono tolti la vita a causa dei suoi testi impregnati di tristezza e angoscia) che pesa letteralmente sulle sue spalle, infatti cammina curvo e lento. Profondamente inadeguato, nella società, lui rappresenta lo xenos, il diverso, ma non alimenta paura o minaccia, piuttosto derisione e incomprensione. Ecco che il viaggio rappresenta un percorso catartico, necessario per la crescita sia fisica, dal punto di vista prettamente estetico (alla fine abbandonerà le vesti da rockstar) sia intima, in quanto avrà una presa di coscienza della sua reale esistenza. Quindi il fine del viaggio non sarà tanto la ricerca della vendetta (che, ad ogni modo, si consumerà) quanto un riscatto da se stesso. Insomma, purificazione e liberazione on the road con un Sean Penn dall’infinita grazia e dall’umorismo sottile. 
Unico neo è il finale, forse troppo improvviso e troppo semplice da assimilare bene, essendo sazi di una fotografia eccezionale e di alcuni dialoghi ben costruiti. E’ come uno scossone a rallenti che, tuttavia, ci offre un bellissimo messaggio: anche se adulti, si può sempre sorridere alla vita e andare avanti. Quindi, sì, il posto deve essere questo.

Voto: 4/5

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